Molto spesso si sente parlare in ambito fondo pensione del cosiddetto lifecycle dell’investimento.
Questo modello si basa sull’assunto che la fase iniziale dell’investimento viene dedicata ad asset rischiosi per poi progressivamente spostare parte del capitalizzato verso investimenti meno rischiosi e volatili come bond e monetario.
Ovviamente lo scopo è quello di scalare la marcia dell’investimento di lungo periodo per evitare di ritrovarsi, per pura sfortuna, una violenta correzione dei mercati azionari nel bel mezzo dell’anno del nostro ritiro dall’investimento.
Molti fondi pensione fanno leva su questo assunto per generare nel cliente una maggiore tranquillità nell’investimento il quale deve sfoderare tutta la sua potenza nella prima metà del periodo per poi sfruttare l’effetto capitalizzazione nella seconda.
Ma siamo sicuri che sfruttare buona parte del rischio nella prima parte del periodo di vita dell’investimento (quando il capitale è più basso) è una buona idea o è meglio rimanere investiti con un classico 60/40 per tutto il tempo?
La risposta dipende dalle caratteristiche personali di ogni soggetto, dalla sua propensione a rischiare, alla sua emotività e soprattutto da quelle che è il tenore di vita che ciascuno ambisce ad avere terminata l’attività lavorativa, un fattore che spesso viene trascurato anche nelle scelte di asset allocation. Un conto è ambire all’acquisto di un cottage, un altro è vivere la quotidianità.
Mai come ora penso che non ci siano dubbi sull’opportunità di adottare piani di investimento di lungo periodo con un’esposizione azionaria elevata, ma se fossimo nei panni di chi ha ancora 10-15 anni davanti potrebbe essere altrettanto rischioso dedicare l’80% del portafoglio all’obbligazionario.
Abbiamo voluto fare un test e vedere nell’ampia storia dei mercati americani quali ritorni avrebbe avuto un risparmiatore dopo 40 anni di versamento in un piano di investimento. Lo abbiamo fatto in due modalità spostandoci indietro di 5 anni a partire da un ritiro nel 2014 fino ad un ipotetico ritiro nel 1969. La prima simulazione adotta un classico life cycle partendo da un investimento 80% azioni 20% bond per poi scalare ogni 10 anni a 60% azioni 40% bond, 40% azioni 60% bond ed infine 20% azioni 80% bond nell’ultima decade.
La seconda simulazione invece adotta, per lo stesso arco temporale, un investimento costante 60% azioni 40% bond. Ecco i risultati.
Ho volutamente inseriti anche il CAGR (tasso di capitalizzazione annua composta) reale, quindi depurato dall’inflazione media dei 40 anni di investimento. Il 2014 ha rappresentato l’apoteosi per il life cycle partito nel 1974, con un ritorno annuo nominale del 8,7% che in termini reali è diventato il 4,9%. Da notare come tra il life cycle con rendimento reale migliore (appunto il 4,90%) e quello peggiore (1,9%) ci sono 300 punti base di differenza che probabilmente hanno fatto arrabbiare non poco chi si ritirò nel 1974 (ma anche nel 1994 visti i 210 punti base in meno).
I baby boomers americani hanno quindi di che ringraziare la Fed per i ripetuti Quantitative Easing capaci di portare i tassi obbligazionari a livelli così bassi da creare ritorni mirabolanti sull’asset obbligazionario. Andiamo adesso a vedere cosa sarebbe però successo rimanendo sempre investiti 60% azioni 40% bond.
Pur avendo vissuto un quarantennio record, i simpatizzanti del life cycle dovranno rassegnarsi a vedere i loro vicini più avventurosi con un Cagr annuo del 6,4%, ben 150 punti base in più che moltiplicato per 40 fa un sacco di soldi. Giusto per darvi un’idea investire 100.000 Euro al 6,4% annuo vi restituirà fra 40 anni 1.195.818 Euro, mentre lo stesso importo con un ritorno annuo del 4,9% creerebbe un montante di 677.671 Euro, poco meno della metà.
Altro elemento che possiamo notare confrontando il 60/40 con il life cycle è legato alla differenza tra il punto più basso di rendimento reale del 1974 (4%) con quello più alto (6,4%) pari a 240 punti base, quindi più basso dei 300 visti prima del . Correttamente qualcuno potrebbe giudicare la maggiore volatilità del 60/40 come un fattore discriminante; ho provato a verificare quanta differenza di rischio ci fosse stata in un portafoglio life cycle 1974-2014 con un 60/40 nello stesso periodo. Scalare la marcia avrebbe creato una deviazione standard media del 10,5%, mentre rimanendo fermi avremmo sopportato per l’11,2%, come vedete volatilità maggiore, ma nulla di clamoroso.
Osservazione conclusiva. Gli ultimi 15 anni hanno visto ben due bear market tremendi sull’azionario americano, ma nonostante ciò chi avesse riscattato per sua sfortuna il piano di investimento nel 2004 e nel 2009 (praticamente sui minimi di mercato) avrebbe portato a casa 1 punto percentuale in più di ritorno annuo (ovvero 40%) rispetto al piano più conservativo del life cycle.
Non possiamo concludere sulla base di queste analisi se un piano di investimento life cycle è meglio di un classico 60/40 per tutta la vita (chissà cosa ci riserva il futuro finanziario), però tutte queste differenze su un orizzonte di 40 anni non le vediamo, anzi.
Quello che andrebbe spiegato ad ogni investitore non è un meccanismo automatico che protegge i risparmi man mano che ci si avvicina alla pensione, quanto piuttosto che cosa potrebbe comportare questo in termini di proiezioni future e soprattutto di capitale disponibile dopo la pensione. Non siamo tutti uguali e ognuno di noi può avere obiettivi diversi nel periodo del riposo lavorativo. Sarebbe giusto simulare con numeri reali storici quale differenza di rischio e di rendimento corre tra le varie alternative e poi decidere cosa fare con i propri soldi in base alle ragionevoli aspettative che ci siamo creati nella testa.