Esiste la mano calda nel mondo degli investimenti? Ovviamente no così come non esiste la mano calda nel basket. In questo articolo cercherò di spiegarvi perché questo fenomeno che piace tanto agli appassionati di basket ogni tanto viene associato a qualche presunto guru nel mondo del risparmio gestito.
La finanza comportamentale negli ultimi anni ha guadagnato una dignità che, fino alla fine del ventesimo secolo, non veniva riconosciuta praticamente da nessuno.
Due bear market devastanti hanno creato una letteratura accademica molto prolifica che ha tentato di dare una spiegazione più concreta a quello che è successo e perché la nostra mente non sempre agisce razionalmente. Un paradigma dell’economia più classica in voga negli anni ’90.
La mano calda nel basket non esiste
Associando la mano calda citata spesso dai commentatori di una partita di pallacanestro al mondo della finanza, mi salta subito in mente la cosiddetta regola della mano calda citata nel libro Nudge – La spinta gentile scritto dal premio Nobel per l’Economia Richard Thaler.
La mano calda non è altro che quel fenomeno che gli appassionati di basket attribuiscono a un giocatore che infila una serie consecutiva di canestri senza errori.
Telecronisti, giornalisti e tifosi mutano così il giudizio su un certo giocatore grazie ad un particolare contesto positivo.
Passare la palla ad un giocatore con la mano calda è considerata una buona strategia.
Peccato che gli esperimenti portati avanti dagli accademici americani in questi anni hanno dimostrato che la mano calda di fatto non esiste.
Durante un All Star Game della NBA americana due studiosi, Koehler e Conley, hanno verificato le statistiche precedenti la chiamata della mano calda da parte dei cronisti e le statistiche successive.
Prima della chiamata i giocatori avevano in media l’80,5% di percentuale di realizzazione dei tre tiri precedenti; dopo aver citato la mano calda i giocatori segnavano il 55,2% dei tiri.
La percentuale complessiva dell’intera gara fu 53,9%.
A questo link trovate lo studio realizzato nel 2009 dai ricercatori.
La persistenza dei gestori di fondi che battono sempre il benchmark non esiste
Associare questo fenomeno alla cosiddetta persistenza delle performance dei fondi a gestione attiva è un gioco da ragazzi quando si cerca di convincere un risparmiatore ad investire su un certo fondo superstar.
Quante volte si è attribuita l’etichetta di fenomeno ad un gestore di fondi grazie ad una scelta contrarian azzeccata oppure ad una striscia di rendimenti sopra la media per più periodi consecutivi?
A quel punto il giochetto del marketing finanziario può partire facendo sognare tutti gli investitori.
Peccato che anche in questo caso le statistiche dimostrano che la mano calda nel mondo dei fondi di investimento non esiste.
S&P Dow Jones Index pubblica periodicamente un rapporto chiamato “Persistence Scorecard” dal quale si deduce molto agevolmente come stanno veramente le cose.

Fonte: SPIVA
Dei 549 fondi americani che a giugno 2017 risultavano nel primo quartile di performance (ovvero ai primi posti della classifica tra i fondi capaci di battere il loro benchmark), cinque anni dopo solo il 2,3% si trovava ancora in quella posizione. In pratica è mancata la persistenza della over performance da parte dei fondi considerati delle star nel 2017.
Le cose non vanno meglio accorciando il tiro semplicemente a tre anni. Solo il 5% dei fondi che battevano il benchmark il primo anno erano ancora al top dopo tre anni.
Voglio essere buono e allargare l’analisi a quei fondi che sono rimasti nella metà “alta” della classifica per cinque anni consecutivi. Quindi non il primo quartile ma il 50% sopra la media.
Il risultato sui fondi americani azionari nel 2021 è stato un deprimente 11%. In pratica solo 1 fondo su 10 dopo cinque anni si posiziona costantemente nella metà dove splende il sole.
Una mano calda che si è raffreddata molto velocemente.