Uno dei più grandi dubbi che assale chi investe con un orizzonte temporale di lungo periodo è quanto rischio è possibile prendersi alll’inizio, durante ed in prossimità della parte terminale di questo processo.
Naturalmente il profilo di rischio, l’età di partenza e l’obiettivo che ciascuno di noi attribuisce all’investimento influisce sulla decisione.
Se servono i soldi entro 5 anni per acquistare l’auto nuova non ha senso investire in modo rischioso con una componente elevata di azioni. Se invece il mio orizzonte temporale è di 30 anni e lo scopo è quello di ottenere un’integrazione alla pensione appare sensato cominciare fin da subito con una parte consistente di azionario.
Personalmente credo però che non sia il progressivo avvicinarsi dell’obiettivo a imporre un cambiamento nel mix di rischio di un investimento, quanto la natura dell’obiettivo stesso.
Faccio un esempio.
Se voglio accumulare denaro con lo scopo di ottenere un adeguato flusso cedolare che mi permetta di integrare il reddito, potrebbe andare bene anche un’impostazione 60% azionario 40% bond.
In questo caso quello che mi interessa è il flusso di reddito costante e non il capitale.
Quest’ultimo potrà svalutarsi o rivalutarsi ma se non è mia intenzione utilizzarlo per finanziare la vita quotidiana la cosa mi lascerà pressochè indifferente; quello che mi serve è un flusso costante di dividendi e cedole che regolarmente vengono accreditate sul mio conto corrente.
Se invece la stessa cifra accumulata avrà come scopo ultimo quello di vivere di rendita, ecco che con l’avanzare dell’età sarà naturalmente opportuno diminuire la sensibilità a certi fattori di rischio.
Dovremo essere consapevoli che una quota parte di investimento rischioso andrà comunque mantenuta in portafoglio per cercare di raggiungere quel 3-4% di rendimento medio annuo utile a supportare il progetto di indipendenza finanziaria.
Il problema in tutti questi casi è che la variabile rendimento è incognita e soprattutto oscillante.
Mettendo a dura prova i nostri nervi di investitori è possibile che lo scoramento prenda possesso delle nostre strategie mettendo in discussione magari 20 anni di virtuosità.
Facciamo un altro esempio.
Qualsiasi persona che dopo 20 anni di investimenti si fosse ritrovato di fronte alla situazione che vedremo di seguito molto probabilmente avrebbe deposto le armi del rischio azionario, sfiancato da due decenni di illusioni, volatilità e devastanti cadute.
Non sarebbe stato il risultato finale a deludere (quando c’è il valore assoluto positivo difficilmente qualcuno lo contesta), quanto il fatto che discorsi chilometrici su portafogli efficienti, diversificazione e premio per il rischio non avrebbero prodotto in due decadi i risultati attesi.
Dal 1988 al 2008 il risultato dell’investimento al 100% in equity americano avrebbe infatti superato di poco più di 1 punto percentuale l’anno quello dell’obbligazionario; la volatilità sarebbe stata però di oltre 3 volte superiore.
Il premio per unità di rischio espresso dallo Sharpe Ratio risultò in quel periodo decisamente più elevato per l’investimento in bond.
Questo potrebbe aver spinto in tanti a dire, in coda a quella grave crisi dei mutui subprime, ma chi me lo fa fare di mantenere le azioni in portafoglio se fra 10 anni devo prelevare il denaro ed il più tranquillo investimento obbligazionario paga tutto sommato quanto l’azionario?
Non ci sono naturalmente formule matematiche che in questo contesto possono garantire che i 10 anni successivi andranno in modo diverso e con un rischio azionario che risulterà ben ripagato rispetto a quello obbligazionario.
Questa mancanza di certezza è proprio quella che spinse, spinge e spingerà in futuro 4 investitori su 5 a liquidare la parte rischiosa del capitale investito per andare su quella più tranquilla esattamente in momenti in cui i prezzi azionari sono particolarmente attraenti.
E’ tutto molto più semplice di quello che si pensa. Quando un prezzo scende il rendimento atteso sale. Lo stesso vale per un’azione come per un’obbligazione.
Guardando indietro, come ahinoi facciamo spesso quando selezioniamo prodotti di investimento, questa si rivela una scelta fatale.
Quando ricerchiamo il fondo comune con le migliori performance passate oppure il settore che meglio si è mosso negli ultimi anni, cadiamo nella classica trappola di selezionare un cavallo vincente sulla base di risultati imprevedibili anni fa come lo sono ora.
Trappola che potrebbe costarci cara come esattamente è accaduto 10 anni fa.
Ecco infatti cosa è successo 10 anni dopo ai nostri due investimenti.
Il bilancio finale dopo 30 anni di investimento dice infatti che, a fronte di una volatilità rimasta pressochè invariata, il rendimento medio annuo composto dell’azionario è andato in doppia cifra, mentre quello offerto dal mercato obbligazionario è sceso sotto al 6% annuo. Lo Sharpe Ratio continua a vedere l’obbligazionario come un investimento più remunerativo per unità di rischio, ma con un differenziale più contenuto rispetto a 10 anni prima.
La normalità è ritornata tra noi offrendo quel giusto premio al rischio che deve essere riconosciuto ad un mercato composto di società prevalentemente profittevoli e operative su un mercato come quello azionario.
Era matematico che questo succedesse? No, avremmo potuto anche vedere l’obbligazionario dopo 30 anni con un rendimento assoluto superiore.
Sarebbe stata normale una situazione di questo genere? Chi lo sa cosa ci riserva il futuro. Una depressione stile ’29 avrebbe potuto rendere credibile uno scenario vincente per i bond.
Nei prossimi 30 anni rivedremo questi numeri? Per l’obbligazionario certamente no, per l’azionario sarà difficile ma con un premio al rischio di 4/5% chi si avvicinerà di più ai risultati dell’ultimo trentennio sarà l’azionario, non certo l’obbligazionario.
E se il vostro obiettivo sarà battere l’inflazione un giusto mix tra azioni ed obbligazioni sarà la scelta migliore.