Quando una regola è buona nella maggior parte dei casi, è sufficiente qualche accorgimento di buon senso per renderla ottima. Il continuo affinamento negli ultimi anni nella gestione della cosiddetta “regola del 4%” durante la fase di decumulo del capitale ne è un esempio.
Nell’articolo 4% è veramente il numero magico per il mondo FIRE abbiamo capito come Bengen e la sua ricerca sulla regola del 4% hanno rappresentato, pur con tutti i limiti oggettivi, un game changer nel mondo della pianificazione finanziaria del ventesimo secolo.
Ovviamente le critiche non sono mancate e per questo Bengen, forse lui stesso incredulo del successo ottenuto con la ricerca, negli anni successivi ha cercato di correggere il tiro.
La regola del 4% rivisitata e migliorata
Con una nuova ricerca dal titolo “Asset Allocation for a Lifetime” Bengen nel 1996 introdusse un approccio variabile nell’asset allocation per tenere conto della opportuna riduzione del rischio all’avanzare dell’età di colui che sta decumulando il capitale.
Bengen si chiese cosa poteva succedere al tasso di prelievo sostenibile del capitale riducendo l’esposizione azionaria in percentuali comprese tra lo 0,5% e il 3% all’anno.
Meno azioni uguale meno rischio, ma eccedendo in questa pratica Bengen capì che tirare eccessivamente il freno abbassava notevolmente l’asticella della quota di capitale prelevabile ogni anno per finanziare il tenore di vita.
La conclusione di Bengen fu la seguente. Una riduzione del 1% di quota azionaria ogni anno era il trade off giusto con la premura di utilizzare la cosiddetta regola del 128.
Cos’è la regola del 128
Con la regola del 128 Bengen definisce l’allocazione azionaria ideale partendo da 128 meno l’età.
Il risultato per un 65enne è quello di una quota iniziale di azionario del 63% poi ridotta di 1 punto percentuale all’anno. I più conservativi possono scalare sulla regola del 115 partendo così dal 50% di esposizione azionaria.
Anche qui in realtà studi successivi hanno dimostrato come questa manovra genera benefici marginali soprattutto considerando l’impatto dei costi. Vendere azioni e comprare obbligazioni significa commissioni di negoziazione che riducono il capitale disponibile.
Un altro esperto nel campo della gestione del patrimonio durante la fase del decumulo, ovvero Pye, nel 2001 ha cercato proprio di capire quanto le spese possono incidere nella quota di capitale prelevata ogni anno per sostenere il tenore di vita.
Nessuno di noi è in grado di distillare dai propri investimenti tutto il rendimento offerto dal mercato.
Che si tratti di fondi o di ETF a basso costo l’impatto dei costi esiste.
L’impatto dei costi sulla regola del 4%
Pye in una sua ricerca ha stabilito che un tasso di spesa annua del 1% si traduce in un mezzo punto percentuale di riduzione nel tasso di prelievo del capitale. Quindi la famosa regola del 4%, per effetto di costi misurabili nel 1% all’anno, diventa la regola del 3,5% al netto dei costi.
Michael Kitces nel 2010 affinò questa analisi.
All’interno di un portafoglio bilanciato tra azioni e obbligazioni, ogni 100 punti base di spese in più si traducono nella riduzione del tasso di prelievo pari al 45% dei costi sostenuti.
Per tutti coloro che quindi affidano i loro denari a fondi a gestione attiva durante la pensione il messaggio è molto chiaro.
Con costi compresi tra 1,5% e 2,5% dobbiamo essere consapevoli che ogni anno tra 70 e 110 punti base del nostro ipotetico tasso di prelievo (ad esempio il famoso 4%) se ne per effetto dei costi.
In realtà lo stesso Kitces in uno studio successivo abbassò l’asticella del 45% al 35%.
Ogni punto percentuale di costi aggiuntivo riduce del 35% di questo 1% il tasso di prelievo del capitale durante la pensione.
Il motivo è tutto di natura fiscale. Riducendo il montante e quindi l’impatto positivo della capitalizzazione composta per effetto dei costi, anche le tasse da pagare sugli utili si riducono alleviando l’impatto negativo sul tasso di prelievo annuo.
Durante la pensione sempre meglio gli ETF dei fondi attivi
Ragionando su costi tipici di un portafoglio in ETF possiamo concludere che un aggravio di costi dello 0,5% (preso come parametro standard per misurare i costi di un portafoglio medio di ETF tenendo conto di spese correnti e di negoziazione) su un portafoglio di decumulo deve prevedere una riduzione del tasso di prelievo annuo dello 0,18% che perciò dovremo andare a trovare da qualche altra parte per riportare in asse il nostro piano.
Se la fiscalità riduce l’impatto negativo dei costi sul tasso di prelievo, la stessa affonda le sue grinfie sul tasso di prelievo in maniera diretta.
L’impatto della fiscalità sul tasso di prelievo annuo
Anche in questo caso Bengen, Kitces e Pye hanno provato a simulare l’impatto del fisco sul tasso di prelievo. Mediamente la conclusione è stata che per un portafoglio bilanciato con livelli di tassazione moderati (diciamo attorno al 20%) l’impatto negativo sul tasso di prelievo si traduce in un calo dello 0,5% che può arrivare fino a 0,75% per portafogli soggetti ad aliquote più elevate.
Ovviamente il mondo della tassazione sulle rendite finanziarie americane è un po’ diverso da quello italiano, ma teniamo conto anche di questo inevitabile fardello nella pianificazione.
Altro fattore capace di incidere sul tasso finale di prelievo è l’orizzonte temporale.
Il tasso di prelievo è influenzato anche dall’orizzonte temporale
Bengen stimò nella sua ricerca in 4,1% un tasso ideale di prelievo per un orizzonte temporale di 30 anni su un portafoglio bilanciato con percentuali di azioni comprese tra 50% e 75%. Accorciando l’orizzonte a 20 anni questo tasso diventava del 5,1% (ma con il 50% di azioni), allungando a 45 anni diventava di 3,5% (ma con percentuali di azioni di almeno il 65%).
Studi successivi di Blanchett e Pfau gelarono un po’ l’ottimismo di Bengen indicando in 30-50% la percentuale ottimale di azionario su un orizzonte di 30 anni (Blanchett) e non più del 30% (Pfau).
La regola generale che comunque possiamo estrapolare da queste analisi accademiche è che il tasso di prelievo indicativamente può salire del 1% se l’orizzonte temporale è di 20 anni e decresce dello 0,5% se è di 40 anni o più.
In questo articolo abbiamo visto i tanti fattori che possono ridurre il valore stimato del capitale necessario per vivere di rendita. Le variabili in gioco sono tante e vanno sempre analizzate una per una senza assolutismi.
In un prossimo articolo cercherò di spiegare, sempre con il supporto delle evidenze accademiche, cosa può aiutarci ad aumentare quella famosa percentuale di prelievo annua dalla quale dipenderà il nostro tenore di vita futuro.