By |Categorie: Educazione finanziaria, Investimento|Pubblicato il: 24 Gennaio, 2015|

 Sentiamo spesso parlare di deflazione, un evento non così frequente ma che ha fatto capolino diverse volte nella storia finanziaria moderna.

Gli investitori dovrebbero però essere preoccupati delle conseguenze sui propri investimenti del fenomeno ben più frequente di inflazione.

Se gli investitori non proteggono il loro portafoglio dagli effetti deleteri dell’inflazione il rischio è quello di trovarsi con un capitale notevolmente più povero negli anni successivi.

La consolazione di non aver perso nulla potrà darvi un conforto psicologico, ma non certo finanziario.

Se ad esempio manteniamo a rendimento zero 10.000 euro depositati su un conto corrente bancario, con un’inflazione annua del 3% ci ritroveremo con un capitale corretto per l’inflazione di circa 8.600 euro reali dopo 5 anni.

In pratica pur disponendo nominalmente di 10.000 euro, il potere d’acquisto sarà quello di 8.600 euro alla data di partenza. Se 5 anni prima potevamo acquistare un’utilitaria con tutti gli optional, ora il pack degli accessori lo dovrete pagare.

Ecco il motivo per cui la liquidità non può essere considerata un asset di investimento soprattutto agli attuali tassi di mercato.

Il grafico che riporto qui sotto indica il valore reale di un deposito bancario di 10 mila $ negli ultimi 20 anni. Pur con tassi nominali positivi come quelli visti in America il risultato è stato un lento e inesorabile declino in termini di potere d’acquisto.

Necessario quindi cercare di battere l’inflazione in un altro modo.

Il mondo obbligazionario offre un flusso cedolare fisso. Se questo risulta superiore nel periodo considerato al tasso medio di inflazione allora avremo un rendimento reale positivo che ci permetterà di accrescere il potere d’acquisto del capitale.

In alternativa ci sono le obbligazioni a tasso variabile che adeguano il loro flusso cedolare ai parametri monetari di mercato (ad esempio Euribor), parametri solitamente correlati all’andamento dell’inflazione. Le banche centrali tendono infatti a muovere i tassi in relazione a quelle che sono le attese di inflazione.

Stesso discorso vale per l’azionario tramite l’erogazione dei dividendi. In questo caso non abbiamo una scadenza determinata ed il rischio misurato dalla volatilità è certamente più elevato.

Nel lungo periodo l’azione rappresenta però il miglior strumento di copertura dai fenomeni di inflazione poiché le società possono adeguare i propri prezzi di vendita (e quindi gli utili) sulla base dell’andamento dei prezzi al consumo. Un fenomeno che però difficilmente trova correlazione diretta nel breve periodo.

Escluse le commodity per motivi già commentati in post precedenti, ci sono poi gli strumenti inflation linked, bond creati proprio per permettere all’investitore di ottenere un ritorno pari al tasso annuo di inflazione (parametro variabile) al quale aggiungere un tasso fisso, una sorta di premio.

Dietro ad un nome si nascondono però delle caratteristiche che portano l’investitore a pensare che i prodotti inflation linked coprano sempre e comunque dal rischio inflazione, percezione errata e fonte spesso a cocenti delusioni come vi dimostrerò tra poco.

Rimandiamo ad un prossimo post la spiegazione di come funzionano e come vanno considerati tali prodotti all’interno di un portafoglio.

Vogliamo però vedere come si comportano questi strumenti alla prova dei mercati.

Dal 2012 al 2019 un investimento in titolo di stato americani indicizzati all’inflazione ha sostanzialmente protetto dall’inflazione. Con 10 mila $ la partenza, con 10 mila $ all’arrivo (11.340 in termini nominale, ma 9.960 in termini reali).

Ma osservate con attenzione il grafico. Dal 2013 al 2018 l’investimento stava perdendo potere d’acquisto. Ovvero in caso di vendita non sarebbe ritornato indietro lo stesso capitale investito.

Nel 2013, nel 2015 e nel 2015 l’inflazione è stata superiore alla performance annuale dell’investimento. Ma come? Non dovevano proteggerci sempre e comunque dall’inflazione questi bond? Purtroppo non è così e come sempre orizzonte temporale ed obiettivi rappresentano lo spartiacque per considerare lo strumento è più adatto alle vostre esigenze di investimento. L’onestà e la convergenza di interessi di chi vi consiglia l’acquisto fanno il resto.

I titoli indicizzati all’inflazione sono considerati titoli strutturati proprio perché non sono lineari e semplici come le obbligazioni a tasso fisso o variabile. Entrano in gioco dei parametri variabili (l’inflazione) che si sommano a parametri fissi (il premio). Il mercato deve tenere conto di un movimento nelle aspettative sui tassi e sull’inflazione e per questo, a volte, sembra che il titolo non faccia il suo dovere.

Ne parleremo in un prossimo articolo ma ricordate sempre che, prima di buttarvi in un investimento magari abbellito con una etichetta di marketing patinata, non esistono soluzioni sempre e comunque vincenti. Tutto ha un senso se ben progettato e costruito attorno ad un piano.

Volete proteggere il vostro capitale dalla perdita di potere d’acquisto dopo la pensione? Allora gli indicizzati come i TIPS hanno un senso in un certo contesto. Avete 20 anni? Forse è meglio guardare alle azioni o agli stessi TIPS ma con pesi percentuali di allocation molto diversi rispetto al pensionato. Ogni situazione è diversa e va gestita.

Capire dove si mettono propri soldi è uno dei requisiti di base per ottenere dei grandi risultati dai vostri investimenti.

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