By |Categorie: Educazione finanziaria, Investimento|Pubblicato il: 12 Maggio, 2023|

Le obbligazioni  a tasso variabile rappresentano uno dei tanti attrezzi a disposizione di un investitore per fronteggiare il rialzo dei tassi di interesse senza subire sostanziali perdite in termini di prezzo. Il pregio principale è ovviamente quello di veder aumentare il flusso cedolare sulla base delle decisioni delle banche centrali. Che è anche il suo difetto quando le autorità monetarie decidono di invertire la tendenza.

Affermazione che in parte è vera come vedremo tra poco, così come è vero che storicamente il tasso variabile offre rendimenti superiori al classico fondo monetario. Per chi volesse approfondire il tema di cosa sono i fondi monetari la lettura di questo recente nostro articolo sul tema può essere utile.

Ma cosa succede quando i tassi cominciano a scendere e siamo investiti in obbligazioni a tasso variabile? Ha senso rimanere sempre investiti nei bond cosiddetti “floater“?

A questa e ad altre domande possiamo cercare di rispondere spulciando tra una ricerca del 2013 di Vanguard dal titolo “A primer on
floating-rate bond funds”.

Comincio subito con due premesse. Acquistando obbligazioni a tasso variabile non vengono eleminati tutti i rischi.

Le obbligazioni a tasso variabile di cui parlerò in questo articolo sono quelle più tradizionali, indicizzate ad esempio ai tassi Euribor e non obbligazioni con strutture dipendenti da posizione della curva dei rendimenti, inflazione, fix to floater e altre indicizzazioni che contengono delle opzionalità.

Anche le obbligazioni a tasso variabile incorporano dei rischi

L’indicizzazione ad un parametro variabile di un’obbligazione abbassa quasi a zero il rischio tasso, ma molto spesso questo beneficio si lega ad un più elevato rischio emittente.

Fatta eccezione per i classici titoli di Stato italiani come i CCT e qualche raro sovranazionale spesso illiquido, nel 2023 trovare emissioni free risk di paesi come Stati Uniti o Germania è praticamente impossibile, tanto per citare due nazioni considerate prive di rischio. Ma anche andando su altri paesi come Francia, Spagna e Olanda la strategia non è praticabile.

Molto più semplice ritrovare quotati sul mercato bond con indicizzazione ad un parametro interbancario (ad esempio l’Euribor che certifica il tasso di interesse al quale le banche si scambiano denaro) in un’obbligazione societaria investment grade (di alta qualità) oppure high yield (bond spazzatura).

Il 2008 insegna però che l’insensibilità ai movimenti dei tassi di questi strumenti viene sopraffatta, quando dominano le tensioni finanziarie, dalla perdita di prezzo provocata dall’aumentato rischio credito percepito dal mercato a causa di una maggiore probabilità di fallimento.

Nella ricerca di Vanguard la correlazione maggiore dell’indice delle emissioni a tasso variabile americane con gli altri indici cugini del mondo bond è proprio con il comparto corporate high yield. Naturale quando una fetta importante di emittenti viene da quel mondo. E questa non è una notizia trascurabile quando si acquistano strumenti gestiti con queste caratteristiche. Sempre meglio leggere il rating medio del fondo o ETF scelto nella cui descrizione troveremo spesso la parola “floating rate”.

Fonte: Vanguard

Cosa succede alle obbligazioni a tasso variabile terminato il rialzo dei tassi?

Altro interessante test che ha fatto Vanguard è quello relativo al comportamento dei floater (come vengono comunemente chiamate le obbligazioni a tasso variabile) durante e dopo i rialzi dei tassi.

Nei tre periodi di rialzo dei tassi praticato dalla FED nel periodo 1994-2012, durante le fasi di rialzo effettivamente le obbligazioni a tasso variabile hanno battuto tutti gli altri investimenti a tasso fisso, liquidità compresa. L’economia è ancora in salute e il rischio fallimento delle società è poco centrale nella mente degli investitori,

Il problema è avere la sfera di cristallo conoscendo in anticipo la data precisa in cui la banca centrale terminerà effettivamente il rialzo del costo del denaro. E quindi effettuare l’arbitraggio vendo variabile compro fisso.

A distanza di 12 mesi da quando la Fed mette in archivio i rialzi dei tassi i guadagni del variabile evaporano, in alcuni casi provocando addirittura un bilancio negativo nella strategia. Questo perché spesso l’avvio di una fase di ribasso dei tassi coincide con un’economia in recessione o comunque in rallentamento dove il merito di credito e la solvibilità di una società vengono percepite come fattori di rischio molto più importanti.

Come sempre l’approccio equilibrato e diversificato risulta essere la scelta migliore quando si investe denaro visto che non esiste il prodotto buono per tutte le stagioni.

Le obbligazioni a tasso variabile proteggono dall’inflazione?

Diciamo ni, o quanto meno non in modo così puntuale come potrebbe accadere con le obbligazioni inflation linked.

Dal 1992 al 2013 la correlazione dell’indice floater con il Consumer Price Index era risultata piuttosto scarsa (0.3) segnalando una direzionalità simile nel movimento (questo è ovvio), ma non certamente da rendere il tasso variabile lo strumento ideale per combattere l’inflazione. Dato probabilmente peggiorato nella decade successiva 2013-2023 con le banche centrali orientate al rimanere ancorate a politiche di espansione monetarie molto generose per cercare di rinvigorire un’inflazione in letargo. Con tassi di interesse quindi più bassi dell’inflazione stessa e non disposti a seguirne le modeste fluttuazioni. Fino al 2022.

Fonte:Vanguard

Cosa succede a rischio e rendimento di un portafoglio bilanciato inserendo obbligazioni a tasso variabile

Vanguard nella sua ricerca ha effettuato diversi test su varie tipologie di asset allocation  per esposizione di azionario e obbligazionario. Quest’ultima componente è stata via via riempita di obbligazionario a tasso variabile per comprendere gli eventuali benefici su rendimenti e volatilità ad un portafoglio bilanciato.

In linea generale aumentare la parte variabile ha determinato una riduzione del rendimento dei vari tipi di portafoglio. Questo risultato è stato però influenzato da 30 anni di tassi tendenzialmente decrescenti nei quali l’investimento a tasso fisso ha sovraperformato quello a tasso variabile.

Diverso invece il discorso legato alla volatilità dove è possibile dare un senso alla componente a tasso variabile come ammortizzatore del rischio nei portafoglio con prevalenza di obbligazioni; dal 20% equity/80% bond fino al 100% bond.

In questo caso allocare tra i 10 e i 30 punti di obbligazioni in strumenti a tasso variabile ha permesso storicamente di smussare la volatilità del portafoglio. Un dato questo che ritengo possa essere considerato valido anche per il futuro.

Le performance degli ETF a tasso variabile

Fonte: JustEtf

Sono tre gli ETF quotati in Italia con la caratteristica peculiare di investire in obbligazioni a tasso variabile. Tutti e tre gli ETF investono in obbligazioni societarie con un peso dei finanziari notevole e superiore ai due terzi dell’intero portafoglio.

Amundi, Lyxor e iShares offrono quindi prodotti molto simili che negli ultimi 12 mesi hanno copiato la performance di un fondo monetario (+1%) evitando le perdite delle tradizionali obbligazioni societarie a tasso fisso colpite duramente dal rialzo dei tassi (-3%). La differenza rispetto al fondo monetario che investe in depositi a vista, oppure rispetto a titoli di stato a tasso fisso a brevissima scadenza la si nota però a distanza di 3 e 5 anni. Il premio per il rischio credito ha prodotto infatti in questo arco temporale un rendimento aggiuntivo.

Il bilancio a distanza di 5 anni rimane sostanzialmente piatto per l’investimento in obbligazioni a tasso variabile a causa di un parametro variabile (Euribor) che per diverso tempo è rimasto addirittura negativo. L’assenza di duration ha però permesso a questi ETF di evitare le massicce perdite accumulate dai tradizionali ETF tasso fisso.

Un pezzo del mosaico obbligazionario

In conclusione possiamo quindi dire che l’investimento a tasso variabile è un’altra di quelle cartucce a disposizione dell’investitore per attenuare il rischio di un eventuale rialzo dei tassi.

Nel fare questo bisogna però tenere presente il fattore rischio di credito che potrebbe inficiare il risultato o addirittura annullare l’effetto benefico del tasso variabile che sale durante le fasi di aumento dei tassi di interesse. I prodotti commercializzati oggi sul mercato degli ETF investono esclusivamente in obbligazioni corporate. Potrebbe aver senso diversificare questi prodotti con uno o più titoli di stato italiani a tasso variabile (CCT) per rendere meno vulnerabile l’investimento alle fasi di recessione economica. Rimane comunque opportuno essere consapevoli che investendo in obbligazioni a tasso variabili ridurremo il rischio di oscillazione dei tassi di interesse, ma aumenteremo il fattore di rischio credito degli emittenti.

Abbiamo quindi dimostrato che non è opportuno detenere il 100% di esposizione degli investimenti obbligazionari al tasso variabile. Per evitare un calo nelle quotazioni e nelle cedole, bisognerebbe infatti avere la certezza del momento preciso in cui una banca centrale smetterà di alzare i tassi. Un market timing molto difficile da realizzare anche per i super esperti del settore.

Una esposizione adeguata all’investimento tasso variabile (diciamo tra il 10% e il 30%)  appare storicamente un buon compromesso per portafogli completamente obbligazionari. La riduzione significativa del rischio tasso di interesse dovrà però tenere conto di un aumento del rischio di credito che in alcuni contesti storici potrebbe annullare i benefici effetti dell’investimento a tasso variabile. Per questo motivo la scelta di prodotti come fondi o ETF monetari che investono in titoli di Stato europei sembra ancora essere lo strumento migliore per contrastare gli effetti negativi del rialzo dei tassi di interesse.

Lascia un Commento