Una delle frasi più gettonate nel mondo degli investimenti è che le azioni sono sempre vincenti nel lungo periodo.
Se decidiamo di mettere a confronto le azioni con le obbligazioni o addirittura la liquidità, il primo pensiero che ci viene in mente è che le prime battono sempre le seconde e il cash in un arco temporale ragionevolmente lungo.
Una semplice ricerca su Google per parole chiave “azioni vincenti lungo periodo” e “obbligazioni vincenti lungo periodo”, in sola lingua italiana produrrà 3,5 milioni di risultati nel primo caso, 250mila nel secondo.
Il luogo comune è evidente e ha un solido fondamento di verità, però…
C’è un però che in pochi raccontano durante i vari corsi più o meno affidabili di educazione finanziaria che troverete in giro per l’Italia.
Da una parte l’ombra del conflitto di interesse, dall’altra la scarsa conoscenza delle dinamiche dei mercati finanziari creano pericolose distorsioni nelle menti degli investitori.
Partiamo proprio da questo ultimo punto con dati conosciuti e incontrovertibili.
Dal 1928 al 2021 la borsa americana ha fornito un rendimento medio annuo composto del 10% (media geometrica). Mantenere i soldi parcheggiati su titoli di stato a brevissima scadenza, la classica liquidità, ha reso sempre in questo periodo storico il 3,3% all’anno.
Questi risultati nominali sono al lordo di inflazione, costi e tasse e non possono essere messi in discussione.
Un quasi secolo di storia della finanza americana sembra confermare che il vostro autore ha completamente sbagliato il titolo dell’articolo.
Sicuri? Rileggete bene il titolo.
Non ho scritto che un indice azionario ben diversificato e globale come lo S&P500 (o il Msci World) non è sempre vincente nel lungo periodo.
Ho scritto che le singole azioni non sono sempre vincenti nel lungo periodo. Anzi, adesso aggiungo il carico da novanta. Quasi nessuna azione è vincente nel lungo periodo.
Confusi? Pensate che tutti gli articoli pubblicati in passato su questo blog sono da cestinare? No anche perché mi deprimerei nel prendere consapevolezza che finora ho scritto sciocchezze. Se avete la pazienza di dedicarmi i prossimi cinque minuti capirete perché tutto sta assieme, forse anche in maniera più solida rispetto a prima.
Perché investire in singole azioni non è vincente
La ricerca accademica che ha finalmente dato al sottoscritto la definitiva risposta al perché la diversificazione negli investimenti è un ingrediente essenziale è stata la seguente. Hendrik Bessembinder nella sua ricerca del 2018 “Do stocks outperform Treasury Bills?” ha analizzato il rendimento total return (comprensivo dei dividendi) di tutte le azioni americane dal 1926 al 2016. Individuato questo valore ha deciso di metterlo a confronto con quello di un normale investimento monetario per capire se e di quanto ogni azioni avesse fatto meglio del più classico dei titoli privi di rischio.
Ebbene, è risultato che il 58% delle azioni negli ultimi 90 anni ha fatto peggio dei Bot americani. Ma questa è solo la punta dell’iceberg.
Le metà delle azioni ha ottenuto un rendimento buy and hold (compra e tieni) negativo.
La percentuale di rendimento più presente nella statistica (circa il 5% del totale) è -100%.
Il tempo mediano di presenza di un’azione su un listino ufficiale è stato di sette anni e mezzo.
Le oltre 25mila azioni presenti nel database dal 1926 a oggi hanno creato una ricchezza netta di 35 trilioni di dollari. Solamente cinque società (Exxon, Apple, Microsoft, General Electric e IBM) hanno creato il 10% di questo valore. Appena 90 società (circa lo 0,3% del totale) hanno generato il 50% dei 35 trilioni.
Poche azioni creano tanta ricchezza, eppure è sbagliato non diversificare
Qui sta secondo me la vera notizia di questa ricerca.
Il 10% di rendimento annuo composto della borsa americana è stato creato da pochissime azioni, un numero talmente basso da creare due tipi di interpretazioni.

Fonte: Do Stocks Outperform Treasury Bills? -2018 – Hendrik Bessembinder
I sostenitori della gestione attiva hanno visto questo risultato come la consacrazione definitiva dell’investimento iperconcentrato con scommesse secche su certe società che ovviamente giustificano il lavoro di quello che in gergo si chiama “stock picking”.
In realtà la vera morale di questa ricerca è che, essendo impossibile selezionare a priori le pochissime società che risulteranno vincenti in borsa nel lungo periodo, diversificare non solo è necessario, ma conviene. Conviene per essere certi di avere nei nostri portafogli anche i futuri campioni che domani sosterranno quasi tutta la performance di un indice.
Certo, avremo anche le pippe, ma come dimostra lo studio sono bastati pochissimi cavalli di razza per portarsi a casa il 10% all’anno negli ultimi 90 anni.
La ricerca del timing perfetto è la principale causa di sottoperformance per un investitore
Questa ultima considerazione si inserisce in un filone ormai consolidato e provato da tempo che, ad esempio, individua proprio nel tentativo di entrare o uscire dai mercati con il timing giusto una delle principali cause di sottoperformance per un investitore di lungo periodo.
Perdere i migliori 30 giorni di borsa degli ultimi 20 anni (lo 0,6% del tempo), avrebbe azzerato un performance del mercato “compra e tieni” di quasi il 10% all’anno.

Fonte: J.P.Mprgan – Guide to Retirement 2022
Evitare di fare scommesse singole e iperconcentrate, in parole povere diversificare con un semplice ETF globale (o con una asset allocation adeguatamente costruita e sempre il requisito della globalità sullo sfondo se i capitali in gioco sono elevati), riduce la volatilità e quindi le oscillazioni dei rendimenti futuri aumentando all’ennesima potenza la probabilità di avere nelle proprie fila i futuri cavalli iper vincenti.
Acquistare singole azioni è provato che aumenta la volatilità di portafoglio e abbassa la probabilità di avere nelle propria scuderia una o più delle poche società vincenti che faranno in futuro le fortune dei listini.
Eppure gli investitori non disdegnano di avere portafogli di investimento concentrati su poche azioni/temi. Perché?
Perché gli investitori continuano a concentrarsi su certe scommesse?
Secondo Larry Swedroe, uno dei più stimati consulenti americani, le risposte a questa domanda sono almeno cinque.
- Scarsa educazione finanziaria che non permette di capire la differenza tra rischio buono (quello che compensa il rischio con il rendimento) e quello cattivo (quello che al contrario non compensa il rischio)
- La convinzione insita nell’investitore individuale di aver scovato informazioni migliori di altre che gli consentono di selezionare in anticipo le azioni vincenti
- La falsa percezione che limitando il numero di azioni la gestione del rischio è più semplice
- Non comprendere che è l’asset allocation di un portafoglio che determina il rischio, non colui che compie materialmente gli arbitraggi tra titoli
- Confondere la familiarità con la sicurezza. Un’azione conosciuta per svariati motivi viene percepita come meno rischiosa e controllabile di un’altra
Come giustamente osserva l’autore della ricerca questi numeri testimoniamo che il mercato delle azioni pubbliche non è poi così tanto diverso rispetto al private equity. Certamente la liquidità e la trasparenza sono fattori a favore delle azioni quotate, ma per quello che riguarda il risultato finale anche nel private equity la parte più consistente dei rendimenti è generata da poche azioni con performance spettacolari.
Una ricerca che aggiunge ulteriore pepe alla disfida tra gestione passiva e attiva degli investimenti.
Se per quest’ultima è appurato che nel lungo periodo la sottoperformance rispetto a un benchmark di mercato è causata da costi, incapacità del gestore, errata applicazione delle regole base di finanza comportamentale, adesso tra i fattori da considerare rientra anche quel processo di fortissima concentrazione dei rendimenti storici nelle mani di poche azioni che rende alquanto complessa una selezione preventiva.
Da qui l’imbarazzo nel raccontare questa amara verità ad un popolo di risparmiatori alla costante ricerca delle migliori soluzioni di investimento.
Quindi l’investimento azionario rende di più dell’obbligazionario e del monetario nel lungo periodo a patto che si tratti di uno strumento possibilmente replicante di un indice ampiamente diversificato. Come farlo ve lo stiamo raccontando da tante settimane con i nostri articoli esclusivamente dedicati al mondo degli ETF.
Ogni avventura personale su singole azioni, fondi tematici, strategie non direzionali, ci porterà su un terreno particolarmente dissestato che richiederà parecchia fortuna per permetterci di arrivare prima e meglio del mercato inteso nel suo complesso. Sta a noi scegliere cosa fare e quanto spendere in termini monetari, di tempo e di stress.
Buon investimento.
Verissimo, anche perché sono i dati a parlare; purtroppo ci si scontra anche con la gestione fiscale dove gli ETF non possono compensare e quindi una piccola parte di azioni è gioco forza averla insieme agli indici. Qualcuno potrebbe dire che si possono usare anche i certificati, vero, ma sono strumenti definiti complessi e quindi da maneggiare con “cura” specialmente dal “fai da te”, ma anche dai consulenti. Nei periodi con tassi nella media statistica decennale anche qualche bond con prezzo sotto la pari si potrebbe utilizzare. Qua però il discorso si allarga e si va fuori tema.
Le azioni infatti sono utili quasi esclusivamente per finalità di recupero minusvalenze (infatti abbiamo un servizio dedicato proprio per questo obiettivo), ma poi assolto il compito molto meglio andare sull’ETF. Le obbligazioni di oggi sono un altro eccellente strumento per recuperare minus o remunerare capitale destinato a obiettivi di breve. I certificates rimangono strumenti spesso complicati, illiquidi e in alcuni casi non remunerati adeguatamente per quello che è il rischio emittente.
Domanda corretta e comincio a rispondere dal fondo. “In my view, for most people, the best thing is to do is owning the S&P 500 index fund,” said Buffett in May 2022.
Tradotto per chi non conosce l’inglese, Warren Buffett si rivolse agli investitori privati dicendo che la cosa migliore che possono fare è acquistare l’indice S&P500, l’apoteosi della diversificazione per un americano.
Riguardo alla tua prima domanda il punto è proprio nel tuo etc…Magari riusciamo a strappare altri 5, 10, 20 nomi di grido che hanno saputo fare meglio del mercato nel lungo periodo, ma su quasi 8 miliardi della Terra mi sembra un pò pochino. Probabilmente contiamo in milioni coloro che non conosciamo semplicemente perché hanno fallito.
Sono tutti dei grandissimi quelli che tu hai nominato e leggere i loro manuali di investimento è un ottimo esercizio per la mente, ma di utilità alquanto dubbia.
I risultati che hanno ottenuto sono così estremi (e non prevedibili a priori) rispetto alla media che come dice Morgan Housel nel suo libro “La psicologia dei soldi” molto probabilmente la fortuna ha giocato in essi un ruolo importante, e la fortuna non si può emulare. Buffett ha accumulato 84,2 dei suoi 84,5 miliardi di dollari di patrimonio dopo ai 50 anni. Lui è sopravvissuto, un piccolo investitore avrei dei seri dubbi che ce l’avrebbe fatta.
Graham ebbe successo negli investimenti in gran parte per il possesso di un corposo pacchetto di azioni GEICO che, per sua stessa ammissione, violavano tutte le regole di diversificazione che lui stesso aveva celebrato nei suoi manuali. Riprendendo ancora un pezzo del libro di Morgan Housel, dove si colloca qui il confine sottile tra audacia e incoscienza?
Tutto questo per dire che lo stock picking esiste, c’è chi lo fa a livello professionale, in alcuni casi per qualche anno con successo, in altri meno. Le statistiche SPIVA sono chiare. Dopo 15 anni nove gestori su dieci non battono il benchmark e sapere in anticipo chi sarà quell’uno è impossibile.
Acquistare singole azioni non è da demonizzare se fatto per una percentuale modesta del proprio portafoglio magari affidandosi a qualche serie professionista che segue una strategia ben precisa. Oppure se fatto per dare un pizzico di pepe alle proprie emozioni di investitori. Le singole azioni sono anche utili per scaricare minusvalenze pregresse , sempre però costruendo un piccolo portafoglio con una logica diversificante di fondo.
Esistono altri buoni motivi per farlo, ma non pretendo di averti convinto, pero piuttosto di averti fatto capire la logica di fondo dell’articolo. A presto.
Obiezioni più che giuste ma secondo me ci sono alcune motivazioni che non reggono.
Non ci sono 8 miliardi di investitori, a meno che in Africa e nei paesi del terzo/secondo mondo ci stiano nascondendo delle ricchezze a noi sconosciute.
Ancor meno sono gli “investitori intelligenti” e consapevoli.
Ciò premesso… degli investitori intelligenti quanti sarebbero in grado di capire e mettere in pratica i principi di questi guru?
Inoltre alle luci della ribalta ci sono i GRANDI, ma non per questo possono esistere investitori non famosi ma che sovraperformano anche di pochi punti un indice diversificato.
Non tirerei in ballo i gestori di fondi perchè hanno vincoli sull’assett allocation, sui settori e i prodotti che possono acquistare…
un investitore privato è più libero e potenzialmente avvantaggiato.
La fortuna sicuramente gioca un buon ruolo… ma nel breve periodo. Sovraperformare per 30 anni elimina questa componente secondo me.
Detto questo anche io ho un portafoglio misto: ETF e azioni singole.
Penso sia la scelta più saggia… almeno per il momento, visto che la mia esperienza è di 10 anni di investimenti e ho ancora molto da imparare.
Articolo interessante.
Ma qualcosa non mi torna. Come fanno quindi i vari stock picker: Buffett, Lynch, Graham, Munger, etc a battere il mercato?
Buffett addirittura afferma che: “La diversificazione è una protezione contro l’ignoranza”