Dopo anni passati a celebrare le qualità di prodotti finanziari buoni per tutte le stagioni, performanti, innovativi, il focus dell’industria finanziaria sta gradualmente migrando verso l’asset allocation di portafoglio come vero motore di crescita del capitale.
Spostare l’attenzione da qualcosa che il tempo ha dimostrato essere poco utile e decisivo per il risultato finale (il prodotto soprattutto se costoso), verso qualcosa (l’asset allocation) che spiega il 93% della variazione di un investimento (come dimostrarono nel 1986 Brinson, Hood e Beebower) apparentemente è qualcosa di buono.
Il percorso di maturazione è stato lento e certamente non ancora completato. Il tema del costo dei prodotti finalmente ha fatto capolino anche tra gli investitori, costringendo molte realtà istituzionali, anche per motivi normativi, a cambiare (in parte) modelli di business adesso orientati verso proposte di portafoglio e non esclusivamente di prodotto.
La ricerca di Brinson del 1986, con il senno di poi, è risultata un vero e proprio spartiacque nel modo di gestire i patrimoni.
L’asset allocation determinante per raggiungere l’obiettivo finanziario
Restare investiti sul mercato prevalentemente con strumenti passivi (e non con i fondi attivi) mantenendo una asset allocation strategica. Questo era il messaggio essenziale di quella ricerca.
Purtroppo regole di base che dovrebbero far parte nel 2022 del bagaglio culturale di ogni investitore medio faticano ad affermarsi. L’industria finanziaria ci mette del suo per offuscare il messaggio, ma anche noi, intesi come singoli investitori, abbiamo delle colpe.
Continuiamo a controllare l’estratto conto titoli ogni sera nella convinzione di avere il controllo della situazione.
Continuiamo a smontare un investimento per rimontarlo subito dopo, nella convinzione di essere più furbi di migliaia di trader iper preparati il cui tenore di vita dipende proprio dallo sconfiggere persone come noi sui mercati ogni giorno.
Ogni tanto continuiamo a credere nelle pozioni magico-finanziarie etichettate con il logo del “questa volta è diverso”.
E poi c’è quel bisogno di allontanare la noia dai nostri investimenti.
E così il tema modaiolo di turno, lo strumento a leva, o il gestore superstar, entrano nella nostra casetta finanziaria.
Viviamo nella speranza che questa “esuberanza” ci faccia guadagnare velocemente ricchezza superando a destra tutti gli altri, magari con qualche colpo di clacson a finestrino abbassato.
Caduta un po’ in disuso (ma mai abbandonata) la favoletta del prodottino miracoloso, l’industria finanziaria attorno alla parola asset allocation “strategica” ha oggi abilmente aperto un cantiere di discussione destinato a durare decenni.
L’asset allocation è il nuovo mantra, ma quella perfetta non esiste
L’asset allocation deve essere statica, per tutta la vita dice qualcuno. No deve essere variabile seguendo il ciclo vitale dicono altri. No deve essere variabile anche nel breve periodo ruotando attorno alla strategica in un tripudio di tattica che quando perde diventa di lungo periodo e quando vince si trasforma in opportunistica.
Non ci capite nulla vero? Avete ragione e in molti casi siamo di fronte alla supercazzola del conte Mascetti.
Come ho scritto già in passato non esiste l’asset allocation perfetta che va bene da oggi al resto della nostra vita. Non esiste perché la nostra vita cambia continuamente e non smette mai di sorprenderci. E può succedere fra un mese come fra 30 anni.
Proviamo anche solo a ricordare quale percezione del rischio avevamo (se siamo persone di mezza età) nel momento in cui abbiamo messo a terra il nostro primo investimento. Oppure, se siamo pensionati, facciamo uno sforzo di memoria cercando di ricordare quali prodotti finanziari esistevano due o tre decadi fa.
L’asset allocation di un portafoglio è un qualcosa di dinamico per natura.
Si muove costantemente perché la nostra conoscenza personale dei mercati cambia, la nostra esperienza diretta cambia, i nostri obiettivi cambiano.
L’asset allocation cambia come la nostra vita
Quello sul quale molti investitori (e consulenti) si fossilizzano è se è meglio una certa quota di azionario adesso, fra 1 anno, fra 10 anni o fra 30 anni.
Non voglio essere frainteso. I cosiddetti portafogli modello, ovvero come dovrebbero essere allocati i risparmi tra varie classi di investimento, per chi vi scrive sono fondamentali per avere qualche certezza in un mare di incertezza. Sono utili per avere idea di quanto rischio si corre investendo in un modo piuttosto che in un altro.
Ognuno di noi può avere la propria ricetta e se viene seguita la regola della diversificazione e dell’equilibrio allora le scelte di investimento saranno eccellenti.
Ma i portafogli modello non devono e non possono necessariamente essere gli stessi per tutta la vita. E non necessariamente aumentando l’età deve diminuire il rischio (e viceversa). Dipende da tanti fattori che oggi non possiamo nemmeno immaginare.
Prima o poi quel piano finanziario sul quale sono state spese (giustamente) parole e pensieri, simulazioni e proiezioni, potrebbe collassare sotto il peso di paure o euforie che ciclicamente attraversano la nostra mente di investitore.
Meglio 100% di azionario fin da giovani per poi andare al 30% di azionario quando siamo in pensione. Oppure meglio 50 e 50 quando siamo persone mature. Di discussioni come queste ne ho sentite a migliaia. Gli stessi libri che trattano il tema asset allocation cercano di individuare la ricetta giusta per fornire una bussola a chi vuole pianificare il proprio futuro. Senza mai arrivare ad una soluzione certa finale.
Io stesso, nel corso della mia vita di investitore e soprattutto di professionista nel mondo della finanza istituzionale, ho vissuto amori travolgenti per certe “allocazioni” di portafoglio rispetto ad altre. Per poi ricredermi.
Non è escluso che in futuro la mia opinione in merito possa cambiare ancora. Il punto è che comunque vada è difficile essere soggetti razionali come vorrebbe la teoria economica classica.
Devo però essere sincero. Se c’è qualcosa che ha cambiato definitivamente il mio pensiero sul tema, quel qualcosa è un articolo di Peter Bernstein che per caso ho trovato in rete più di un lustro fa. L’autore di uno dei capolavori della finanza (Più forti degli Dei, la straordinaria storia del rischio) nel 2001, dopo lo scoppio della bolla speculativa di internet, scrisse per Bloomberg un articolo dal titolo “The 60/40 Solution” .
In quell’articolo Bernstein entrò a piè pari sulla famosa allocazione ideale di portafoglio.
L’idea di Peter Bernstein su come investire il denaro
Reduci da una fase di euforia, nello smarrimento tipico di un post sbornia, tra le critiche feroci di chi accusava l’industria finanziaria di vendere prodotti bilanciati come soluzione a tutti i mali, Bernstein in tre pagine riuscì a mettere tutti a tacere con buon senso e realismo. E trovai molte risposte ai miei dubbi.
Gli investitori acquistano azioni perché si attendono un extra premio per il rischio che andranno a correre in futuro.
Quindi come investitori razionali, scriveva Bernstein, se il nostro obiettivo è far crescere il capitale riscuotendo questo premio la scelta non può che ricadere sulle azioni. Del resto questo è proprio il meccanismo che spiega perché nel lungo periodo le azioni hanno offerto rendimenti superiori alle obbligazioni.
Ho così deciso di ripetere l’esercizio numerico che l’autore propose in quell’articolo con qualche personalizzazione.
Mettendo a confronto le performance storiche di un portafoglio azionario 100% e uno bilanciato 60% azioni e 40% obbligazioni (sempre utilizzando indici americani) ci accorgiamo che il rendimento medio annuo composto non è stato poi così diverso.
L’investimento 100% azionario ha reso l’11,5% annuo. Quello 60/40 il 10,3%.
L’1,2% di differenziale di rendimento non è un’enormità, ma traducendolo in cifre 10mila dollari in 40 anni sono diventati 820mila se investiti in azioni, 533mila se investiti in modo bilanciato.
Quasi 290mila dollari sono un sacco di soldi ai quali credo che nessuno rinuncerebbe a priori. E infatti l’investitore razionale che cerca extra rendimenti dovrebbe sempre investire in azioni. Non ci sono grandi dubbi.
La finanza è una scienza sociale
C’è però un problema ed è quello che avvicina la finanza alle scienze sociali.

Fonte: Portfoliovisualizer – 100% S&P500 vs 60% S&P500 40% Us10 TNote
L’investimento azionario ha avuto anni con perdite da -37% e guadagni da +37%. Quello bilanciato si è mosso tra -14% e +32%. La perdita massima per un investimento azionario è stata del 51%, quella di un bilanciato 60/40 del 26%.
La volatilità, ovvero di quanto hanno oscillato i rendimenti attorno al rendimento medio, è stata una volta e mezzo più alta nel caso dell’investimento azionario rispetto a quello bilanciato.
E qui sta il problema.
In questo lungo arco temporale emozioni, orgoglio, ego, sogni, incubi, pregiudizi sono fattori che nulla hanno a che vedere con l’andamento dei mercati finanziari. Ma influenzano incredibilmente i nostri risultati finali.
E finiamo così per fare peggio non solo dell’asset allocation 100% azionaria, ma anche del 60/40, del 40/60 e anche dello 0/100.

Fonte: J.P.Morgan Asset Management Guide to the market 3trim 2022
Quando proiettiamo in avanti a beneficio del nostro piano finanziario quell’extra profitto di 290mila dollari, stiamo facendo delle ipotesi, diceva Bernstein, irrealistiche.
Quante possono essere le persone che per 40 anni rimarranno imperterrite investite al 100% in azioni, reinvestendo diligentemente i dividendi senza aver mai la tentazione di spostare qualche pedina della scacchiere?
E qui lo scrittore americano cita la frase che più mi colpì di quell’articolo.
Le statistiche di lungo periodo sono meravigliose, ma sintetizzano ciò che il mercato ha realizzato, non quello che il singolo individuo o gestore di fondi ha realizzato. La lezione costante che ci offre la storia è il ruolo dominante della sorpresa. La sorpresa è la regola non l’eccezione. E siccome non sappiamo cosa ci riserva il futuro non possiamo avere ragione su tutto, sbagliare a volte è inevitabile.
Un portafoglio bilanciato 60/40 era, secondo Bernstein, un rimedio a questa incertezza.
Non la soluzione migliore, ma la spiegazione del perché è difficile essere razionali fino in fondo quando investiamo soldi.
Perché è difficile rimanere razionali quando investiamo
Durante le fasi di ribasso la maggiore sicurezza offerta dalle obbligazioni (e le minori perdite o maggiori guadagni nel caso prevalga la correlazione inversa) crea la giusta predisposizione mentale per decidere cosa fare con le azioni. Siamo più tranquilli perché il capitale sulle montagne russe non rappresenta il 100% dei nostri risparmi.
Nelle fasi di rialzo quel 60% di azioni non ci permetterà di fare gli sbruffoni con gli amici, ma nemmeno ci farà perdere il treno del rialzo come abbiamo visto dai numeri del back test precedente. Siamo più tranquilli perché non siamo stati esclusi dalla festa e qualche dolcetto lo assaggiamo pure noi.
Qualcosa che risulta complicato da spiegare a qualsiasi risparmiatore italiano in un 2022 dove tutto è sceso in modo importante, anche quegli investimenti obbligazionari che dovevano fare l’esatto contrario di quello che hanno fatto. Ma siamo di fronte a un evento di coda e non tutti i mali vengono per nuocere. Soprattutto per chi deve cominciare ad investire oggi, una performance così estrema e negativa delle obbligazioni non è da intendere in senso negativo è esattamente l’opposto. E invece il folclore mediatico va esattamente da altra parte; come spesso accade quando si verificano situazioni così estreme.

Performance annuale total return titoli di stato americani a 10 anni
Nell’incertezza del futuro l’unico modo che abbiamo per sopravvivere è diversificare; in questo modo saremo esposti al numero più ampio di opportunità possibili.
Ecco perché Bernstein chiuse quell’articolo indicando il classico investimento 60/40 come la strada più equilibrata per una asset allocation di lungo termine.
Non necessariamente la migliore, ma quella che ci farà dormire meglio la notte. Certo, si potrebbe essere più razionali e investire ancora di più in azioni se i nostri obiettivi lo richiedono, ma non è facile perché dobbiamo fare i conti con noi stessi.
Tutto questo rende molte asset allocation irrazionali per gli scopo finali che ci siamo prefissati, ma tutto sommato sensate per vivere meglio e in maniera redditizia il nostro viaggio da investitori.
Buon investimento.
Articolo illuminante. VI seguo da tempo e voglio complimentarmi con voi per tutti i preziosi articoli che inserite nel sito e per la vostra onestà intellettuale. Se posso permettermi un consiglio, aggiungete anche un canale Telegram. Nel frattempo mi iscrivo alla newsletter. Grazie ancora!
Grazie a te dei complimenti, siamo felicissimi di averti tra i nostri iscritti. Anzi con l’occasione ringrazio tutti coloro che negli ultimi mesi sono entrati a fare parte del club di Investire con Buonsenso. Riguardo al tuo suggerimento me lo segno tra i progetti da valutare nel 2023. Grazie
Ottimo articolo, mi piacerebbe leggerne uno riguardo i veri ptf all-weather e all-season che ultimamente sui social vanno tanto di moda, da quel che ne ricavo io è che per il lungo termine abbiano rendimenti lordi talmente bassi che un conto deposito al 4% è quasi migliore…
Mi piacerebbe leggere una vostra opinione.
Un saluto
Andrea
Grazie, abbiamo parlato di questi portafogli in questo articolo https://investireconbuonsenso.com/2022/10/03/il-portafoglio-di-investimento-perfetto-non-esistera-mai/ di qualche mese fa se può interessare. Poi il discorso tra investimenti bilanciati, azionari e obbligazionari (o conto deposito) è un pò più complesso e articolato. Dipende sempre e soprattutto da orizzonte temporale, obiettivi, capacità di sopportare il rischio, ecc…